Ricordi con il maestro G.A.Gentile al 'De Sanctis' (II)

2022-09-03 11:22:51 By : Mr. Mr Long

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Manfredonia – GLI ANNI DI 4^ E 5^ ELEMENTARE AL “DE SANCTIS” (II – continua).

Nel dopo guerra (’45), tra i docenti più bravi e severi che hanno insegnato presso la scuola elementare “Costanzo Ciano” (poi De Sanctis) va sicuramente annoverato il compianto maestro Giuseppe Antonio Gentile.

Lo ricordo con affetto, perché mi è stato di grande insegnamento.

E’ stato il mio maestro di 4^ e 5^ elementare negli anni scolastici 1956/57 – 1957/58 presso l’edificio “De Sanctis”. Poiché abitavo vicino la chiesa di San Michele a Monticchio, e poi anche per motivi di risparmio perché dalle suore al Sacro Cuore si pagava una retta mensile, i miei genitori mi iscrissero presso la scuola elementare “De Sanctis”. In classe, sono stato sempre uno scolaro attento, ma ogni occasione in assenza del maestro, era buona per prendermi gioco dei miei compagni di classe.

In quel periodo tutti mi chiamavano “u figghje de Pasquele u lattere”, perché mio padre gestiva una latteria pubblica “veciune u lavandine” (nei pressi del lavatoio pubblico in largo dei Baroni Cessa) ed io, insieme ai miei fratelli eravamo impegnati tutti i giorni mattina e pomeriggio, a consegnare il latte a domicilio ai clienti di mio padre. Il maestro Gentile mi conosceva bene, perché era uno dei clienti di mio padre, e quando mi recavo a portare il latte a casa sua nelle bottiglie di vetro (latte non scremato e pastorizzato come adesso), mi apriva sempre la porta una bella e gentile signora bruna, moglie del maestro. La sua abitazione, era in una palazzina nei pressi della taverna di Taronna. Il primo giorno di scuola, il maestro appena mi vide mi chiamò vicino la sua cattedra e mostrandomi un righello piatto a sezione rettangolare di legno, con un mezzo sorriso, mi disse: “…Coste u canùsce ?…”, e mi mostrò “a bacchette”. Poi continuò: se nji stodie e nde cumburte bbune in classe i mene ti fazze rosse rosse…”. E io subito gli risposi: sì, Majé !

Ricordo che “nennì ca me nguzzove tande a je alla scole”, (non è che mi piaceva tanto andare a scuola) però in quegli anni di 4^ e 5^ elementare, spronato dal mio maestro di scuola Gentile, mi impegnai tanto e insieme ai compagni Michele Pellico, Giacomo Scuro e un certo Del Vecchio, alla fine dell’anno risultammo i più bravi della mia classe composta da più di 40 alunni, con quasi tutti otto, nove e dieci in tutte le materie sulla pagella scolastica. A proposito dei miei compagni di classe Pellico e Scuro, ricordo che sempre in quinta elementare, fummo selezionati insieme ad altri bravi scolari di altre classi, che frequentavano quel plesso scolastico, costruito durante il periodo fascista, per partecipare a un programma radiofonico RAI, che ebbe luogo presso la stessa scuola elementare “De Sanctis”, per rispondere ai quiz su alcune materie quali: “storia, geografia e matematica”. Alla fine della trasmissione, il presentatore ci regalò un piccolissimo microfono d’argento a spilla.

In molte classi dell’edificio “De Santcis”, in quel tempo, i pidocchi la facevano da padrone, perché molti scolari non si lavavano mai i capelli. Nella mia classe il maestro Gentile pretendeva che tutti, dovevamo tagliarci e portare i capelli corti. In particolare nei mesi più caldi (da aprile a giugno) rasandoci i capelli anche a zero “u tattamelòne” o portarli “alla Umberte, pu ciuffette annànze” (taglio di capelli ritornato da poco di nuovo di moda). A proposito di capelli corti, ogni tanto penso a mia madre, povera donna, che doveva accudire in casa 8 figli. Spesso mi lavava i capelli con il sapone, e alcune volte anche con la cenere del braciere, per non parlare degli indumenti che indossavo per la scuola, sempre puliti e ben stirati. Sempre mia madre, quando i capelli non erano lavati, prima di uscire mi passava sul cuoio capelluto strisciando nei capelli a mò di rasoio “u pettenessine”” un piccolo pettine che aveva denti stretti e appuntiti per verificare se avevo qualche pidocchio in testa. Rammento in quel tempo, che molte mamme prima di mandare i figli a scuola, fuori l’uscio di casa, rovistavano con le mani tra i capelli dei figli per vedere se trovavano pidocchi; e quando li trovavano li schiacciavano sotto le unghia dei due pollici delle mani. Il maestro Gentile, in classe ci ripeteva sempre: “… ragazzi dovete studiare, perché i vostri genitori, che non lo hanno potuto fare, fanno sacrifici per mandarvi a scuola…”.

Il quegli anni a Manfredonia c’era l’usanza dei genitori di mandare i propri figli ad apprendere un mestiere, da piccola età, perché dicevano: “mbere nu mestjire figghje e stipe”. Molti ragazzi, dopo la scuola, frequentavano le botteghe artigianali di sarto “cusetore”; di falegname “falegnème”; di barbiere “varvire”; di funaio “funére”; di ferraio “ferrére” ; o andavano “alla moseche” (alla scuola di musica). Molti genitori, per punizione, quando i figli non volevano studiare li mandavano a lavorare alla “frabbeche” detta anche “alla coffe” (muratore). In quegli anni, ogni genitore pagava al capomastro o al maestro di musica una quota al mese, perché questi insegnasse il mestiere al proprio figlio, e nel contempo per sottrarli anche dalla strada “pe luarle dalla strede”. Era usanza di molti pescatori e agricoltori, nei mesi estivi portare i propri figli a lavorare a mare sulle rispettive barche e nelle proprie campagne.

Sempre il maestro Gentile, per farci capire il valore e l’importanza dei soldi e invogliarci a studiare, per assicurarci nella vita un futuro migliore dei nostri genitori, un giorno in classe appese sulla grossa lavagna nera, alcune banconote da 10 mila lire “i lenzule” del suo stipendio di maestro e disse: “… questi soldi, se studiate, un domani li potrete guadagnare anche voi…”. Sinceramente, quel fatto mi colpì così tanto a vedere quella scena con tutti quei “soldoni di carta” appesi alla lavagna che non l’ho più dimenticata.

Lo ricorderò sempre con affetto il mio maestro di scuola elementare Giuseppe Antonio Gentile, non solo per le sue capacità di bravo insegnante ed educatore molto severo “iove ngazzùse”, ma anche perché dotato di grandi doti umane.

Nel dopo guerra, presso la scuola elementare “Costanzo Ciano”, poi “De Sanctis” insegnavano altri bravi e severi maestri, (insieme a poche maestre), dei quali voglio ricordare: “u maèstre Mundelicchje” (Mendolicchio); “u maèstre Conteduche” (Conteduca); “u maestre Mazzone” (Mazzone); “u maèstre Casaline” (Casalino); “u maèstre Devànne” (Devanna); “u maèstre Di Noje”(Di Noia); “u maestre Piermondòse” (il maestro Piemontese morì in un incidente stradale sulla strada di Foggia mentre era in servizio); “u maèstre Palòmbe” (Palomba, poi nominato direttore); “u maestre Di Lascie” (Di Lascia); “u maèstre Vingitorje” (Vincitorio) che utilizzava un tubo di gomma “pe lisciè u pile ai uagnùne”; “u maèstre Lumbarde” (Lombardi). Questo maestro, ricordo che aveva sul suo righello scritta la parola: ”giustizia”. Tutti i maestri tenevano sulla scrivania “a bacchette” la riga di legno e quando si incavolavano e perdevano la pazienza, perché gli scolari facevano troppo baccano, (pensate che ogni classe era composta da più di 40 alunni) lo battevano forte e più volte sulla scrivania per farli zittire (e qualche volta la lanciavano anche all’indirizzo dei più turbolenti), gridando ad alta voce con una esclamazione popolare: “Mazze e panèlle fanne i figghje bbelle !.

I maestri Di Noia, Di Lascia, Conteduca e Mazzone, poi si trasferirono in altre scuole locali.

Una cosa è certa che quasi tutti gli scolari, tranne i più bravi, quando non studiavano o facevano chiasso in classe prendevano bacchettate “avevene assaggete i bbacchettete” sulle mani che onestamente facevano male. Se tiravi la mano quando il maestro ti bacchettava, ti raddoppiava la dose. Personalmente l’ho provata due volte, per imprudenze manifestate in classe. Qualche maestro, oltre alla bacchetta, come l’insegnante Conteduca utilizzava “u nellòne” che portava all’anulare della mano destra, con il quale picchiettava “dove i tippe nghepe” sulla testa degli scolari negligenti e turbolenti.

Uno dei momenti di svago in quella scuola era quando andavano a mangiare giù alla refezione “abbasce u refettorje”, dove ogni giorno “ce faciove rebbelle. Spesso ci facevano mangiare “i detele pi fasule”, “paste e patène”, “paste pa carna biffe” (questo tipo di carne conservato in grosse confezioni di alluminio arrivava dal Montana, U.S.A.), ed altre pietanze sempre a base di pasta. Insieme al “primo piatto” ci davano un pezzetto di formaggino giallo “u furmaggine ammerechene”, e una fetta di pane di “fellungine” sul quale spalmavamo “a cutugnéte” la marmellata che ci servivano, custodita in piccole confezioni. Alcune volte ci portavano un composto di polvere di farina “a farine a latte”, che si scioglieva in un po’ d’acqua e si preparava “a zoppe u latte”. Personalmente, siccome, in famiglia vendevamo il latte, preferivo mangiarla cruda, mettendola sull’indice della mano e poi leccarla.

Gli alleati americani, prima di sbaraccare da Manfredonia, dopo la 2^ guerra mondiale, avevano lasciato, numerose vettovaglie, nei depositi del Consorzio Agrario.Tra questi alimenti, grandi quantità di formaggio, conservato in barattoli di stagno di 5 kg., marmellata, una sorta di polvere di farina “a farine a latte”, ed altre provviste alimentari. Al refettorio, poiché erano molti gli scolari che dovevano alimentarsi, si facevano due turni di servizio. Alcune volte “facemme u mezzone”, andavamo due volte a mangiare, e quando la bidella “a Mulòse” ci scopriva, immediatamente ci sgridava dicendo: “n’ata volte qua stete vuie, avute mangete, turnete in classe !”. In quegli anni, lavorava nella cucina della refezione, anche una certa Maria Prota detta “u curretòre”, soprannome acquisito da suo nonno che faceva il fantino. Questa signora di buon cuore e brava cuoca, ogni tanto preparava il pranzo completo anche per qualche maestro che aveva una famiglia numerosa, che faceva portare “nda nu quacquavìlle (in un contenitore) avvolto in un panno, a casa dello stesso maestro, da qualche suo scolaro. “Eh, uagnì” erano tempi duri per tutti.

Tra i ricordi dei miei amici della scuola elementare al De Sanctis, due episodi non li ho mai dimenticati. Il primo, è riferito al compianto amico di banco Andrea Gambuto, ragazzo dalla vena comica, con il quale mi divertivo a fare scherzi agli altri compagni di classe. Questi, ogni tanto, non mai capito il motivo perchè lo faceva, sorseggiava l’inchiostro che stava nei calamai, dove bagnavamo i pennini delle nostre penne per scrivere. Il secondo episodio, si riferisce ad un altro scolaro figlio di poverissima famiglia che veniva in classe sempre con i sandali vecchi “i zambitte” “e i patene ai cavezette” (calze bucate).

Poverino, poi, indossava sempre un pantalone con le toppe “pu funnille nghile” cucite sul sedere e sulle ginocchia e un maglione sgualcito. Si grattava sempre in testa, perché siccome viveva in una campagna vicino “a Zechicchie” (località sita all’epoca nella periferia di Monticchio) teneva i pidocchi in testa. Un bel giorno, il maestro Gentile, chiamò in classe il bidello della scuola, Michele Candido, persona che tutti temevamo per il suo carattere burbero. Questi prese per mano questo scolaro e lo accompagnò nel bagno dove e gli fece “na stregghjete” li lavò i capelli con il sapone e lo riportò in classe. Il Maestro poi, stanco di vederlo vestito sempre allo stesso modo, una domenica mattina lo portò con se alla villa comunale vicino al Castello dove si teneva il mercato settimanale cittadino e “u vestette dalla chepe ai pite”, gli comprò scarpe, calze, un pantalone e un maglione nuovi.

A proposito di pidocchi, ricordo che ogni tanto facevano il giro delle classi due bidelle: una certa Lucia Bissanti soprannominata “Lucje a Mulòse”, e un’altra arzilla signora detta “Felumòne a bbedèlle” (Filomena Capriati), entrambe, oltre ai compiti di pulizia delle classi, e al servizio di refezione, erano incaricate dal direttore Luigi Rogato, di spruzzare con una pompa cilindrica con stantuffo, “Diddìtì, u flitte nghepe ai uagnume ca tenevene i pedocchje” (DDT sulla testa dei ragazzi nelle classi dove c’era la presenza di pidocchi ). Prima di soffiare il DDT sul capo dello scolaro, (che facevano posizionare con il capo chinato e mani sul banco), gli dicevano ad alta voce: chiude l’ucchje !.

Tra gli scherzi, giochi e sfottò che si facevano in classe ricordo: mettevamo in bocca semi di pino “i pepernìlle”, o le infiorescenze verdi che stavano vicino le foglie di albero di salice piangente o di mimose selvatiche e alcune volte utilizzando anche piccoli ceci. Con una cannuccia (piccola cerbottana) “a mò di soffio” colpivamo in testa i compagni di classe. Sempre nella cannuccia infilavamo “i cuppetille” (piccolissimi coni di carta) che lanciavamo a più non posso non solo in classe ma anche fuori della scuola, alle scolare e agli scolari anche di altre classi e alcune volte prendendo di mira persone più grandi per lo più donne.

Quando andavamo alla villa comunale e ci arrampicavamo sugli alberi di pino per prendere i semi per utilizzarli nella cannuccia, spesso ci redarguiva, la giovane, ma già severa guardia municipale Angelo Carbone, che ci correva anche dietro con la sua bicicletta dicendo “ue figghje de…”, attinde se ve pigghje!”. Altra guardia municipale che ci terrorizzava e non solo quando giocavamo a palla, era Pasquale Trotta al secolo “Pasqualine a uardie, detto anche “treppòne” per via del suo pancione.

Questo intransigente vigile, ci sequestrava la palla quando “ce nduppòve” (ci sorprendeva) a giocare in villa, per strada o vicino la scuola. Se commettevamo infrazioni più gravi, rottura di lampadine di lampioni della luce elettrica, o i vetri della scuola, e “all’èxabbroppete” all’improvviso, ci coglieva in flagranza mentre salivamo sugli alberi, ci faceva “a contravenziòne” (ci multava). Lo stesso vigile, consegnava a domicilio la sanzione, con conseguente “pagliatòne” da parte del genitore al figlio. Le palle di gomma da calcio sequestrate dalle guardie municipali ai ragazzi le portavano al Comando, sito all’epoca all’ingresso del comune, e tenute in custodia in un contenitore da “don Cicce” (Francesco Cosentino), un vigile anziano molto bravo, che ci restituiva la palla quando andavamo al Comando accompagnati da uno zio o un fratello maggiore. Io andavo da mio zio, Pompeo La Torre, fratello di mia madre, (ex calciatore, che aveva giocato negli anni ’30 in serie C nel Manfredonia), che all’epoca lavorava al Comune, che mi faceva restituire subito da “don Cicce” la palla sequestrata.

Altro gioco che facevamo a scuola, di nascosto al maestro, era la confezione di aerei “i pparecchje” e missili di carta che lanciavamo (quando l’insegnante usciva dalla classe) dalla finestra dell’edificio scolastico, gareggiando con i compagni di classe a chi li faceva arrivare più lontano. Sempre con i foglietti di carta costruivamo “u ciocce de carte ” e facendo muovere con le dita le orecchie dell’asinello, prendevamo in giro qualche compagno di classe “nu poche ciucciarille” con il verso dell’asino: hi… hooo..hi… hooo…!!. Con la carta più doppia, invece, (quella gialla utilizzata dai “pesciaiule” (pescivendoli) e dai salumieri), confezionavamo “i barchètte de carte” (le barchette di carta). Le stesse, quando uscivamo dalla scuola, andavamo sulla spiaggia e li mettevamo nel mare, o le portavamo nella vascone della fontana sita presso la villa comunale di fronte la torre Aragonese del Castello. E quando c’era vento ci piaceva vederle “veleggiare” fino a quando si bagnavano e affondavano. Uno dei giochi che si faceva vicino la scuola era “a venghe”. (Gioco che praticavano più le scolarette prima di entrare e all’uscita dalla scuola con un salvatacchi di gomma di una scarpa vecchia, che si lanciava in caselle disegnate per terra con il gesso, “a dodece” (dodici caselle) segnate all’interno con i numeri romani e “a cinghe” (con cinque caselle, con numeri ordinali scritti in progressione in ogni casella). Mentre il gioco più svolto dai ragazzi, appena uscivamo dall’edificio scolastico era “u trévelùnghe” detto anche “mamme a zzumbé” (gioco della cavallina, con uno o più ragazzi che si mettevano in fila indiana chinati in avanti e un altro che li saltava addosso con gambe divaricate, poggiando le mani sulla loro schiena).

Gli altri giochi che noi ragazzi eravamo soliti fare in quegli anni in loco erano: “u juche u corle”, “u juche a tutì”; “u juche alla mammaccavalle”; “u juche a mbugnèle”; “u juche ai castille pi nozzele”; “u juche ai detratte”; “u juche alla uèrre frangése”; “u juche pu monopattele”; “u juche ai quatte candùne”; “u juche a scappè attorne i pizze candune”; ”u juche a cinguandùne trombòne”; “u juche pa carriole”; “u juche pu ruzzille de firre”; “u juche u pundelicchje, pu mazzarille”; “u iuche i bettune”; “u juche pi pizze andiche sotte u mure” o “pu singhe” (con le monete antiche in disuso, con il lancio delle stesse sotto il muro o sulla striscia tracciata a terra); “a chepe o croce” (sempre con le monete antiche, messe una su l’altra per formare “u mendòne” e poi colpirle con un ciottolo); “u juche pu bbuatte de stagne”; “u iuche de l’oche”; “u juche pu facciulette bianche” detto anche ”u juche a bandierine”; “u juche a briande e carabbenire”; “u juche i tringhe tranghe”; ”u juche au zecchenette” (gioco con le carte, non giocavamo a soldi ma chi perdeva doveva subire “i tippe” colpi sul naso con una carta); “u juche u s(k)cattille pa lote” (gioco con il fango); “u juche a gobbe la mamme”; “u juche a criscjamendòne”; “u juche tip tap abbascie pi pallotte” o “u iuche i pallotte pu fussette”; “u juche pa furcenelle”; ”u juche june alla lune”; “u juche a chiamè” (d’estate sopra la banchina del porto del Molo di Levante o sugli scogli prima di tuffarci in mare); “u juche pi varche de stagne a mmere”; “u juche pa cumòte”; “u juche a mmuccjacone” detto anche “a sckòppe”; “u juche i catenille”; “u juche alle belle statuette”; “u juche uno due tre stella!”; “juche pa zoche”, ripetendo mentre si saltava la corda “arange, limone e castagne”; “u juche pa vone salvagge”; “u juche pi spighe de grene selvagge dette anche “scannacavalle”; “u juche pu fucile a molle”. (Tutti questi giochi, li descriverò dettagliatamente in un prossimo scritto).

Va evidenziato che in quegli anni, le scolare, avevamo come insegnante una maestra e le classi erano divise per sesso.

**Questo articolo, lo dedico anche, al compianto amico di infanzia, vicino di casa e compagno di scuola Salvatore Mansi, con il quale ho giocato insieme anche al calcio fino alla maggiore età.. Si trasferì a Milano per lavoro. Lo chiamavamo affettuosamente “Manzarille”, era un mancino molto bravo e tecnico, giocava a mezz’ala, “mizze sinistre”. Ricordo, che quando emigrò a Milano per lavoro, giocò a calcio nelle giovanili del grande Milan al tempo di Gianni Rivera e Dino Sani. Noi ragazzi, in quegli anni, a Manfredonia, disputavamo numerose partitelle di calcio presso “a terra gialle” di fronte al Castello, per strada, sulla spiaggia e, in un campetto giù al campo sportivo Miramare, dove adesso c’è la tribuna coperta, con palle di gomma bianche, che si “foravano” facilmente, nel corso delle partite a 5, a 6 o a 7 giocatori per ogni squadra.

Oltre alle partitelle, con la palla di gomma giocavamo ai tiri in porta oppure ai colpi di testa vicino al muro delle case. Uno dei tanti sfottò dei vincitori agli avversari, dopo una partita di calcio, era quello di ripetere più volte: “flì flè !…flì flè !”.

Sinceramente, nonostante la povertà, ho nostalgia di quei tempi, c’era molta più fratellanza e amicizia disinteressata, e poi la nostra Città non aveva subito tanti scempi.

Note storiche sul maestro Giuseppe Antonio Gentile

Il maestro Giuseppe Antonio Gentile, nacque a Manfredonia il 6 marzo 1917. Appassionato studioso di storia patria e ricercatore di tradizioni e folclore di Manfredonia. E’ stato presidente del Centro di Documentazione Storica di Manfredonia. Notevole è stato il suo apporto per il recupero di opere d’arte della nostra città. Nel corso della sua vita è stato promotore di numerose iniziative culturali cittadine.

Autore di numerose opere storico-etnografiche delle quali ricordiamo: “Manfredonia. Testimonianze vecchie e nuove”, velox, Trento 1970, II ed., Calamari, 1979, III ed., Foggia 1994;

“Storia dell’antica Siponto” (1200 a.C. 1255 d.C.), Calamari, 1974. “Arti e mestieri a Manfredonia”, Litotipografia E. Cappetta, Foggia, 1988. “Flora e fauna a Manfredonia” Litotipografia E. Cappetta, Foggia, 1992. “Vocabolario Illustrato del Dialetto Manfredoniano”, Centro Residenziale di Studi Pugliesi, Manfredonia, Siponto. 1998 Questa ultima pubblicazione con presentazione dell’esimio prof. Michele Melillo.

E’ deceduto a Manfredonia il 6 luglio 1999.

(A cura di Franco Rinaldi, cultore e storia di tradizioni popolari di Manfredonia – tutti i diritti riservati) VIDEO

franco rinaldi from Stato Quotidiano on Vimeo.

FOTOGALLERY – A CURA DI FRANCO RINALDI – TUTTI I DIRITTI RISERVATI Il maestro G. Antonio Gentile insieme all’esimio prof. Michele Melillo durante la presentazione della monografia di Gentile “ Flora e fauna a Manfredonia” La mia classe di 4^ e 5^ Elementare presso la scuola “De Sanctis”. Al centro il Maestro G. Antonio Gentile. Refettorio fine anni ’50. Anni ’50. Mercato alla villa comunale. Guardia Carbone La guardia municipale Pasquale Trotta Anni ’50. Il gioco dell’oca. Inizi anni ’60. La squadra di calcio Stella Maris, vincitrice del torneo estivo giovanile di calcio, con la quale giocavo con l’amico Mansi. Manfredonia, centro storico negli anni ’50. prima dei grandi scempi. 1951. Scolaresca al femminile

C’era un altro vigile a quei tempi di nome Pasqualino S. che faceva le multe per “tarzanamento sugli alberi”. Noi figli di agricoltori o promossi o respinti l’estate la si passava in campagna a lavorare, era meglio essere rimandati in qualche materia. Quando descriverai il gioco di “june alla lune” ricordati di citare le 21 fasi del gioco.

Bravo Franco Rinaldi! Sei un grande!

Caro Franco, la dedica a Salvatore dell’articolo ci ha commossi. A nome di Andrea, suo figlio, e di tutti noi fratelli, grazie. Lino Mansi (Scusa se utilizzo questo spazio per ringraziarti, ma non so in che altro modo poter raggiungerti)

grazie franco per questi bellissimi ricordi della nostra povera ( in tutti i sensi !! ) gioventù. ricordo i banchi con il portacalamaio, i quaderni con la copertina nera e il bordo rosso, i pennini, i formaggini e il surrogato di cioccolato triangolari e……i pidocchi !!!!!!!!! quando tornavo a casa mia madre era già pronta con il “pettinino”per la pulizia quotidiana e, pur essendo passati settantanni, ricordo ancora il rumore dello schiacciamento !!!!!!!!!! erano tempi di guerra e si faceva colazione…….con la farina americana !!!!!!! grazie ancora per questi bei ricordi del dopoguerra !!!!!!!!

Caro FRANCO non ho parole per quello che ci regali. Immensamente GRAZIE.

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